La conclamata crisi di governo e il fondo limaccioso su cui l'Italia si trova incagliata hanno se non altro – a prescindere dagli oroscopi che sempre più rabbuiano – un piccolo vantaggio, che è quello di costituire un pettine in cui, via via e uno dopo l'altro, i nodi stanno venendo.
Fra questi, quello forse di più ampio spessore e sotto gli occhi dell'opinione pubblica, è proprio quello che investe la Scuola, l'Università e la Ricerca nel suo complesso. Uno spazio, cioè, che preso per grandi linee, ci restituisce l'immagine di un'eterna malata della società, pressoché inguaribile.
Corsi e ricorsi: dietro lo "One man show" e le dichiarazioni d'occasione non sono difficili da intravedere demolizione e disgregamento. Perché la questione nodale della formazione e dell'istruzione nel nostro Paese è qualcosa che proviene da lontano e non si può risolvere ed esaurire a forza di slogan o aggiustamenti cosmetici.
Gli inviti alla sobrietà, giuntici recentemente dal presidente del Consiglio, oltre che risibili per una condotta privata che – fuori da ogni considerazione morale – ha messo alla berlina l'Italia, consolidando gli abusati stereotipi di chi vuole conchiuderla fra pizze e mandolini, giungono tardivi e inutili.
La responsabilità maggiore, infatti, di questo Governo è stata quella di negare la crisi, di rimuoverla, ritenendo forse che trasmettere l'immagine manipolata di un Paese positivo e sorridente, pur mentre la barca traballa, avrebbe tenuto lontani i cittadini da quel volgersi – così fortemente percepito e diffuso, invece – di un futuro come promessa in un futuro come minaccia.
Le famose tre "I" della Moratti (internet, impresa, inglese: ma il copyright, come tutti ricordano, è di Tremonti), sono solo un pallido ricordo, lettera morta.
Ma i nodi vengono al pettine, dicevamo. Anni di sostanziale rinuncia della RAI alla missione di servizio pubblico cui invece sarebbe votata, sempre più esposta viceversa nelle guerre sull'audience; anni di cattiva televisione, di Reality, di guadagno facile (fatto ogni sera di 500.000 euro nascosti dalla fortuna dentro un pacco); e ora una politica di limitazione, di ridimensionamento e di tagli, senza alcun investimento teorico prim'ancora che economico, hanno allontanato sempre più le generazioni che si sono susseguite dall'ambizione che sottostà allo studio (meglio la finta Accademia di Amici o un titolo accademico?), all'etica del sacrificio (non serve studiare, bisogna aver studiato), favorendo nei giovani ricercatori e studenti la fuga dei cervelli, l'archimedica sopravvivenza sopra il tavolo dell'arte di arrangiarsi, la rinuncia che nasce da un'attesa vuota e delusa.
È chiaro che un discorso sull'istruzione è discorso complesso e comprende molti parametri, primo fra tutti lo studio dei flussi demografici, che consente di prevedere l'impiego del corpo insegnante.
Tuttavia è stridente il contrasto fra l'immagine che si vuol perpetrare del nostro Paese e la realtà dei fatti: sono due anni che ci sentiamo ripetere che il sistema Italia tiene ed è al riparo dallo scivolare verso la cateratta in cui sono precipitate la Grecia, e ora l'Irlanda e il Portogallo.
Voglio solo ricordare come un tempo le riforme venissero compiute per garantire un allargamento della base di coloro che potevano usufruire di determinati servizi. Pure, qualsivoglia riforma promossa da questo governo – attanagliata dalla crisi e dal livellamento delle risorse – non può che essere di segno contrario: perché sancisce un restringimento di quella base, prima fra tutte la riforma Gelmini.
Non si può gestire la comunicazione all'infinito facendo il gioco delle tre carte, fingendo dove sia nascosto l'asso. Non sono gli studenti in rivolta che vogliono mettere in mano l'Università ai baroni: è il commissariamento voluto dal ministro che non solo la rende ostaggio del baronato, ma la consegna a una oligarchia ristretta di baroni.
Il taglio dei fondi (borse di studio) è reale, non è un'invenzione: Tremonti sostiene, dal canto suo, di aver concesso 800 milioni. In realtà prima ne ha tolti 1200, poi ne ha ridati 800 (dal momento che siamo ancora in grado di fare addizioni e sottrazioni, e soprattutto di non farci prendere in giro, il computo finale è di 400 milioni che mancano all'appello).
Ma il dato forse ancor più preoccupante, da un punto di vista istituzionale, è che per la prima volta un ministro è commissariato da un altro ministro. I fondi dei nuovi concorsi e il potere decisionale viene sottratto al ministro dell'Università, che passa la decisione al ministro dell'Economia. Mai si era visto, nella storia repubblicana, un ministero direttamente subordinato a un altro ministero.
Non ci vogliono sottili osservatori della società per comprendere che siamo al cospetto non tanto di propositi riformatori, ma di una resa.
In un Paese che arriva a contestualizzare la bestemmia, forse bisognerebbe contestualizzare, viepiù a ragion veduta, il disagio e le forme di protesta di studenti e ricercatori. Lo dico subito e in modo chiaro: non condivido, neanche in nome di ragioni fondate, il voler menare le mani per passare ai fatti e condanno quanto si è verificato ieri presso il Senato della Repubblica.
Tuttavia sarebbe miope non considerare i segnali che da tutto ciò ci giungono e le tensioni che si stanno generando: siamo passati dalla generazione dei precari a quella dei disoccupati. La disoccupazione naviga intorno al 10 per cento. Sostenere che i giovani si sentono deprivati del loro futuro non è una chiacchiera da bar: è una triste e allarmante realtà.
«Quando un popolo individualista come il nostro perde la fiducia in se stesso e nelle istituzioni che lo reggono, l'immoralità diventa una forma di vita civile e la mediocrità invade la cosa pubblica»: il brano potrebbe tranquillamente campeggiare nei quotidiani odierni, scritto per mano di Galli Della Loggia o Barbara Spinelli: è tratto invece da Viva Caporetto!, di Curzio Malaparte e data 1921. Temo che possa gettare una luce di verità su un Paese culturalmente senza centro qual è il nostro, cresciuto intorno ad Azzeccagarbugli e Vittorie mutilate, che non riesce a sentirsi unito neanche in prossimità del centocinquantesimo anniversario dell'Unità, e soprattutto che non riesce ad assimilare la sua storia e a sfruttare le risorse che vi sottostanno per disegnare un futuro diverso.
Paolo Rossi
condivido pienamente
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