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lunedì 28 febbraio 2011

Berlusconi e il berlusconismo


Una riflessione sui mutamenti culturali rappresentati
o provocati dal «cavaliere» nella società italiana
Il governo del paese sta vivendo un momento delicato e con esso l’Italia intera.
La fuoriuscita dal Pdl della componente finiana ha messo a rischio la tenuta della maggioranza, che ha superato per tre voti – ottenuti con sistemi discutibili - lo scoglio del voto di fiducia dello scorso 14 dicembre, ma non è certo tranquilla di fronte alle prossime prove.
Vedremo nelle prossime settimane cosa accadrà; siamo comunque fiduciosi che la saggezza del presidente Napolitano lo porterà a fare le scelte che gli competono più adeguate all’interesse del paese.

Con Berlusconi non finirà il berlusconismo
Al di là dell’esito di questa vicenda – certo importantissima per il paese - quello che sembra indubbiamente avviarsi al tramonto è l’era berlusconiana, quel periodo iniziato con la «discesa in campo» annunciata in maniera del tutto inedita con una videocassetta recapitata a tutte le televisioni il 26 gennaio 1994 e che ha visto da allora l’imprenditore milanese occupare un ruolo di primo piano – anche quando politicamente sconfitto - nelle vicende del nostro paese.
Vorremmo con questa nostra riflessione - che abbiamo a lungo dibattuto in redazione e che vorremmo fosse letta e discussa con serenità da tutti i nostri lettori - valutare cosa resterà in questo paese dopo il ritiro, più o meno forzato, più o meno vicino, di Silvio Berlusconi dalla politica.
Non ci interessa discutere il Berlusconi uomo o il Berlusconi politico - su cui legittimamente ciascuno ha il proprio parere che esprime negli appuntamenti elettorali, gli ultimi tutti vinti dallo schieramento del premier – ma un modo di pensare e d’agire, una «cultura» (anche se non ci sembra il termine giusto), una visione della vita, una scala di valori che - incarnata da Berlusconi, ma al di là dello stesso - ha fortemente impregnato la nostra società. Compresi a volte ambienti che si sentono tutt’altro che berlusconiani. Ci permettiamo di entrare a piedi uniti in questa materia non perché ci sentiamo addosso l’arroganza del giudizio ma perché – da cristiani (altrimenti come?) - desideriamo valutare il berlusconismo come epifenomeno della nostra cultura italiana; il berlusconismo come questione non meramente o principalmente politica, ma come prodotto e produttore della nostra cultura nazionale.

Che cosa è il berlusconismo
Questa cultura è oggi largamente egemo-ne in Italia. È una miscela di ammirazione e di aspirazione rivolte al potere e alla visibilità che il successo dà; di richiesta di uomini forti, di leader, di personaggi che comandano, anche a scapito della democrazia; di apprezzamento per uno stile personale sicuro e disinvolto, insofferente a regole e norme, soprattutto morali; perennemente giovane e sano, che inevitabilmente occulta, perché vergognose o sconvenienti, la morte e le fragilità.
Questi valori di riferimento riflettono fedelmente la concezione culturale diffusa nella post-modernità, ove prevale un edonismo personale senza progetto e apertura sociale. Tale atteggiamento culturale, che è figlio dell’individualismo contemporaneo, travalica i confini nazionali, eppure in Italia si manifesta in forma spettacolare perché incarnato dall’uomo più potente. La particolarità della cifra socio-culturale berlusconiana è che ci sia qualcuno che personifichi questo modello sciolto e assoluto - letteralmente ab-solutus cioè sciolto, svincolato - e lo realizzi per tutti, anche per chi non ce la fa e sa benissimo che mai ce la farà. Ma intanto è un sogno percorribile. Sembra essere una dimensione che piace molto all’italiano, anche colto, acculturato e che occupa ruoli di responsabilità. È una cultura che trova radici negli anni ’80 (quelli della Milano da bere) e trova numerosi interpreti e comprimari (anche da parte di alcune aree del mondo cattolico). Magari capaci di «usare» Berlusconi per raggiungere precisi interessi. O incapaci di replicare, se all’opposizione, con un’altra idea di paese. Ha scritto recentemente sul Corriere della Sera Angelo Panebianco: «Ci sono due modi per fare opposizione a un governo. Il primo consiste nel contrapporre ai progetti governativi di modifica più o meno profonda dell’esistente, proposte diverse, che ovviamente si giudicano migliori, di modifica altrettanto o più profonda. Il secondo consiste nel difendere l’esistente. Quest’ultima è stata la scelta della sinistra in quasi tutti i campi di interesse collettivo. Ne è derivata una paurosa mancanza di idee nuove sul che fare... non essendo in grado di trovare risposte creative, la sinistra si è ridotta a giocare solo sulla difensiva ». Proviamo a fare un esame di cosa resterà, anche dopo Berlusconi. A che cosa ci ha abituato? Con che cosa dovremo fare i conti, dentro di noi?

Da dove viene il consenso
Nel berlusconismo il successo personale dipende dall’abilità e spregiudicatezza comunicativa e dalla capacità di farsi collettore dei processi identificativi individuali, benché non di progetti collettivi. Più volte, nel pieno degli scandali sessuali o della crisi politica, Berlusconi si è difeso, a modo suo con ragione, dicendo che gli italiani si identificano in lui, nonostante tutto, o forse proprio per tutto quello che gli succede e che combina. Il leader non raccoglie consensi per le idee che esprime e forse neanche per le promesse che elargisce, ma per lo stile che impersona e per il potere che esercita. Il consenso è una sua seconda pelle e deriva dalla sua immagine di vincente nella vita, nel mercato nello sport, con le donne... È una cultura in cui non si realizza né si cerca un progetto politico (salvo magari che c’è chi cerca di «cavalcarlo» per il proprio progetto) ma si celebra il sogno o gigantismo individualistico e la trasformazione del bene comune in desiderio o optional individuale.

L’insofferenza per la legalità, le regole e le istituzioni
In questa cultura ha ricevuto una mazzata considerevole il diritto-dovere di farsi giudicare. Diritto e dovere uguali per tutti, come la legge è uguale per tutti. L’insofferenza del premier ad accettare di farsi giudicare è arrivata al punto di paralizzare il Parlamento per anni nel farsi confezionare leggi salvacondotto ad personam di ogni genere, e di delegittimare in maniera pesantissima i giudici (regolarmente definiti «comunisti» e attori di un complotto ai suoi danni), ponendo un potere dello stato contro un altro. Si è insinuata in noi l’idea che i cittadini non sono davvero tutti uguali davanti alla legge, che non è obbligatorio rendere conto delle proprie azioni, che il furbo potente ha più possibilità di farla franca dell’onesto. Resta l’idea che l’evasione fiscale non è un reato vergognoso e una colpa sul piano etico, ma è un legittimo modo di difendersi dallo stato sanguisuga.
(Che cori di irrisione, anche a sinistra, quando Tommaso Padoa  Schioppa definì «bellissime» le tasse!). Resta l’idea che le regole sono «lacci e lacciuoli» che frenano i capaci, non garanzia di equità per tutti. Resta l’idea che la magistratura è un organo di potere del tutto inaffidabile e orientato politicamente. E che quindi -con logica zoppicante - va sottoposto al controllo della maggioranza di turno.

La confusione tra privato e pubblico
È una lezione fondamentale di ogni etica che un politico, specie un capo di governo, debba sempre saper distinguere il suo ruolo pubblico dalla sua posizione e dai suoi gusti privati, fino al sacrificio di predilezioni personali che possano offendere le situazioni di normale disagio o debolezza. Ci resta, invece, l’incapacità di distinguere i ruoli, come se fosse normale amministrare la cosa pubblica da casa propria e gestire le vicende private come fossero questioni di rilevanza pubblica. Ci resta un diffuso senso di antipolitica, che condanna tutto ciò che è istituzionale come vecchio e rappresenta tutto ciò che è nuovo come buono, compresa la scelta di promuovere personaggi appariscenti ma del tutto inadeguati a parlamentari o ministri. E questo nuovismo esasperato ha colpito a destra, al centro e a sinistra. Resta l’idea che la politica è una cosa leggera e casalinga, che tutti possono fare,senza necessità di formazione, di regole, di equilibri. Anzi, chiunque è meglio della casta dei politici di professione. Tutti, purché fedeli e di contorno all’immagine del leader- padrone che li ha inventati, fatti ricchi e potenti e quindi a lui devoti. Altrimenti, sono traditori. Diversi partiti potrebbero riflettersi in quest’immagine.

Il populismo come guida per le scelte politiche
Se è solo il consenso che guida le scelte, e non una razionale riflessione su obiettivi comuni,l’uso del sondaggio diventa la guida dell’agire politico. La conseguenza è che la politica si riduce a schiava degli umori e delle richieste momentanee, si trasforma in inseguitrice di desideri, sentimenti, mal di pancia contingenti. La funzione del politico è invece quella di guidare gli impulsi e di correggerne le pulsioni interessate ed egoistiche che contrastano la costruzione della res publica. Restala convinzione che non conviene rischiare disfidare l’impopolarità per far procedere ciò che è giusto, ma che occorre assecondare i desideri della gente per mantenere la popolarità.

La mancanza di senso dello Stato
In Italia e soprattutto all’estero abbiamo assistito allibiti a diversi episodi in cui l’imprenditore- capo del governo dà «consigli per gli acquisti» o intima di non fare pubblicità su alcuni giornali a lui avversi; consiglia alla ragazza che cerca lavoro di sposare un giovane ricco; racconta barzellette a chi sta ponendo problemi seri; fa le corna o i cucù negli appuntamenti internazionali; accusa la stampa perennemente di mistificare quanto lui afferma... L’eredità pesante che ci troviamo addosso da questa immagine a volte colta con un sorriso stupito è la diminuita capacità di comprendere la fondamentale distinzione tra i poteri dello stato, cardine della democrazia occidentale e la necessità di un sistema delicato di equilibri e contrappesi tra il ruolo legislativo, esecutivo e giudiziario. Sarebbe urgente ripristinare corpose ore di educazione civica nelle scuole.


Il rapporto con la televisione
Berlusconi è il creatore della televisione commerciale in Italia. Dalla fase pionieristica delle tv via cavo, oggi assistiamo a un rincorrersi delle televisioni a proporre identici programmi allo stesso pubblico, mentre gli utenti più attrezzati si ritraggono. Oggi, con pochissime eccezioni, le nostre serate sono piene di giochi a premi e ballerine, di proposte «culturali» centrate sul denaro e il successo guadagnati facilmente e senza merito, su un’immagine della donna degradata a oggetto di piacere, sulla spettacolarizzazione del dolore e sull’imbarbarimento di tutti nei confronti televisivi, ridotti a chi urla più forte. La tv è lo strumento principe della cultura dominante: è l’arte di solleticare la pancia degli italiani. La sollecita e la cavalca. Ciò che non va in tv, non esiste. Ciò che resta di valido, vada in seconda o terza serata.

Il rapporto con la religione
L’avvento di Berlusconi in politica e al governo in poco più di tre mesi, l’operazione «Mani pulite» dei giudici milanesi che ribaltarono l’assetto politico italiano, il crollo e la fine inevitabile della Democrazia Cristiana italiana come partito unico di riferimento dei cattolici italiani e della Chiesa hanno prodotto la diaspora dei cattolici in politica, tanto è vero che oggi i cattolici sono parte di più o meno significativi partiti o schieramenti politici di destra e di sinistra.
Il che significa che tutti i partiti sono titolati a rappresentare i cosiddetti valori cattolici, fatta salva la difficoltà di saper nominare questi valori cattolici «non negoziabili»: vita, famiglia, educazione... Ma con il berlusconismo si assiste a uno stravolgimento del rapporto fede-politica. Mentre il cattolico dovrebbe mostrare per intero la propria appartenenza religiosa-etica nella sua testimonianza personale ed essere più indulgente verso gli altri cittadini e cercare una mediazione nella costruzione della legge che deve salvaguardare un bene per tutti, si ha nel berlusconismo la richiesta di una legislazione esigente e dura per la città di tutti (sullo stato terminale della vita e sull’accanimento terapeutico, sulle relazioni familiari, sulla prostituzione, sul consumo di coca...) e una pretesa di indulgenza verso se stessi e la propria «libertà personale». Le scelte di vita non sembrano per nulla interrogare il nostro rapporto con la religione. Da qualche tempo, diciamo pure almeno da un anno e mezzo, anche la Chiesa ha intuito una certa distonia e uso strumentale della religione; cioè la Chiesa ha capito di essere stata «usata» per altri scopi non poi così nobili: i cosiddetti voti del cielo. Si sta da più parti registrando un certo fastidio in casa cattolica: lo registra la Caritas italiana, lo registra Fami-glia Cristiana che non le ha mai mandate a dire a tutti i governi. Anche un bollettino parrocchiale come il nostro non si vergogna di dire che a volte la Chiesa - certa Chiesa - è andata a braccetto con qualche potente di turno e qualche compromesso l’ha desiderato e ottenuto.
Non è uno scandalo dirlo. Così come è significativo dire che la Chiesa sta parlando con rinnovata libertà.

Come uscirne?
Da un mutamento culturale non si esce con scorciatoie. Se i pozzi sono avvelenati, occorre cambiare l’acqua nei pozzi. Non sarà una nuova legge elettorale (auspicabile) che restituisca ai cittadini il diritto di scegliere i parlamentari ed elimini l’enorme premio di maggioranza a chi ha solo un voto più degli altri, a correggere l’immenso carico di antipolitica che ci pervade.
Occorre tornare alla «buona politica», alla politica disinteressata dei destini personali, povera di privilegi e ricca di proposte, che premi gli uomini e le donne migliori del paese e rottami caste, correnti, camarille e cricche. Occorre che uomini e donne nuovi dichiarino il loro amore per la nostra nazione. E si spendano nel dimostrarlo.

La redazione di Longuelo Comunità

( L’articolo è a firma di  don Massimo Maffioletti, parroco della Comunità e già caporedattore del quotidiano di Bergamo “L’Eco di Bergamo” )

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